IL RAPIMENTO DI FRANCESCO ALTAVISTA (1865)


Il 15 settembre 1865 una comitiva di briganti rapì il piccolo Francesco Altavista, di sei anni. Il bambino si trovava, insieme con i genitori (don Giuseppe e donna Angiola Masini, originaria di Marsico Nuovo), in una casa di campagna di proprietà della famiglia sita alla contrada Patrimonaci. Il venerdì successivo, il 18 settembre, si presentò a casa Altavista tale Antonio Trezza, un custode di maiali nativo di Padula che, per ragioni del suo mestiere, dimorava abitualmente alla contrada Pratalano di quel comune. Il Trezza chiese alla famiglia viveri per trenta briganti, assicurando che le condizioni del bambino erano buone.

A casa Altavista si precipitò il Sindaco, l'avv. Alfonso Giampietro, ufficiale di pubblica sicurezza del Comune, che sottopose il Trezza a un occhiuto interrogatorio. In quei frangenti, donna Carmela Altavista - diciannovenne zia di Francesco - riconobbe il Trezza quale colui che "la sera della catastrofe ... armato di schioppo,  stava sulla gradinata che immetteva al quarto superiore, e precisamente da dove i briganti fecero irruzione nella stanza".

S'improvvisò dunque un riconoscimento di persona e tutti riconobbero il Trezza quale uno dei componenti la comitiva di briganti che avevano preso in ostaggio Francesco.

Trezza chiese allora che, sulla sua probità, si chiedesse conto a don Vincenzo Volpe, un prete di Padula. Gli inquirenti ritennero, da tanto, che quel sacerdote fosse "il capo almen morale di un’associazione di malfattori perciò abbiam pregato il Regio Giudice Dr. Oro a darci o procurarci indicazioni sul conto del Volpe e del Trezza ed il detto funzionario assicura ricordare che in una delle processure relative alle grassazioni del Francesco fu Angelantonio Masini, il nome del Volpe non è estraneo".

Poiché il Trezza disse anche che i briganti avrebbero aspettato a Mandrano i commestibili richiesti, si organizzò una battuta per la loro cattura, concordandola con il Prefetto di Sala Consilina e i Sindaci di Padula e Marsico Nuovo. Molti briganti fuggirono mentre Michelangelo Pinto, Pietro de' Giuda e Giuseppe Pinto furono arrestati.

Il bracciante padulese Michele Arcangelo Pinto era cugino del noto Angelo Pinto, "attualmente in espiazione di una condanna a venti anni di lavori forzati riportata per complicità in brigantaggio". Confessò che insieme con altri dodici briganti capitanati da Nicola Marini era stato autore del sequestro, al quale avevano partecipato anche due brienzani, tali Michele e Pasquale, "de’ quali uno è un po’ balbuziente e l’altro porta grandi baffi con qualche pelo bianco". Disse che il piccolo, dopo aver attraversato il bosco Vivo,  era stato condotto a Mandrano e da lì, su ordine di Nicola Marini, a Padula, dove era stato consegnato nelle mani del prete Volpe che "imboccava il ragazzo avvilito dalla fame, mangiando maccheroni, cavoli e carne a lesso". Pinto "recisamente asserisce che il Don Volpe dette a lui lo incarico di azzardarsi a simiglianti venture per procurare qualche cosa e suppone aver fatto altrettanto cogli altri suoi compagni, anche perché in una data circostanza, forse sabato, gli dette una salvietta con qualche commestibile per portarla ai briganti". Anche Antonio Trezza, dopo la confessione del Pinto, ammise i fatti.

Don Vincenzo Volpe di Cono, di anni cinquanta, sacerdote secolare domiciliato a Padula, si rintanò in un ostinato e risentito silenzio. Disse appena che la nipote Maria aveva sposato Gerardo Ferrara, "antico manutengolo e poscia traditore di Angelantonio Masini".

Fu messo a confronto con il Trezza e il Pinto che confermarono le accuse, ma il prete rimase impassibile: "La mia condotta è conosciuta in Padula. Son figlio a Cono Volpe, e non ho bisogno qua di discarichi".

Le attenzioni si puntarono dunque sui due brienzani che il Pinto e il Trezza avevano indicato quali complici. Essi avevano fatto riferimento "a due guardiani del bosco Lago". Furono dunque convocati dal Sindaco Giampietro tutt'e cinque i custodi del bosco: Giuseppe Maria De Luca,  Raffaele Macchia, Michele Russo, Gaetano Colangelo e Vincenzo Marrone. Si appurò, dunque, che Michele Russo "è balbuziente per effetto di un colpo di scure riportato da Rocco Scelzi né primi giorni di agosto, in seguito di quale cagione ha sofferto una pericolosa malattia" e che "Raffaele Macchia ha grandi baffi alla brava di color bianco che inclina quasi al bruno sporco". Pinto aveva proprio detto che, dei due brienzani, "uno è un po’ balbuziente e l’altro porta grandi baffi con qualche pelo bianco". Chiamato a riconoscere nel Russo e nel Macchia i due complici, Pinto tuttavia negò, affermando di non "volersi ingannare la coscienza".

Ciononostante, il 23 settembre il sindaco Giampietro arrestò i due deferendoli al Tribunale di Guerra della Provincia, giacché "non seppero fornire sufficienti notizie delle rispettive mosse e furono contradditori fra loro. Né d’altronde, avendo confessato essere a loro conoscenza la comparsa di persone sospette nel bosco già dal giorno 12 – come era loro dovere, riferirono tale novità all’autorità Politica o militare".

Le indagini proseguirono con l'acquisizione di alcuni elementi di sospetto a carico del Macchia e del Russo; Macchia, in particolare, "aveva preso la prima moglie in Padula".

Il piccolo Francesco era ancora nelle mani dei briganti. Don Giuseppe Altavista si rivolse dunque a tale Carmine Di Mare "perché avesse inteso da’ briganti quali erano le loro pretese per rilasciare il ragazzo". Di Mare si portò nel bosco Vivo dove incontrò "a breve distanza un brigante e dopo pochi altri passi se ne presentarono altri sei, tutti dell’età da trenta a quaranta anni vestiti alla foggia di Padula e Sala, meno il primo giovinotto con calzone blu con striscia rossa come quella de’ Carabinieri, ed armato con due botti ed alcuni anche con revolveri; ed ho notato inoltre che uno alla parlatura era un salese". Dopo quattro ore di cammino, incontrò Francesco, tenuto nelle mani di Nicola Masini, il quale chiese un riscatto di diecimila ducati per restituirlo alla famiglia.

Don Giuseppe Altavista disse di non poter pagare una così ingente somma. Di Mare tornò dunque dai briganti che accolsero con poco entusiasmo la notizia. Dissero che "poco loro importava del Prete Volpe e del Ferrara arrestati e che anzi essi avrebbero complimentato al sig. Altavista mille ducati se i suddetti erano condannati a morte e cinquecento per ogni altra condanna, poiché costoro avevano tutta la colpa di questo ricatto che loro certamente non avrebbero fatto se da questi non avessero saputo che solo scopandosi la casa Altavista avrebbero potuto cacciarne ventiseimila ducati". Il capitano indispettito "prese un coltello e tagliò dal ragazzo buona parte dell’orecchio dritto che avvolse poi in una carta dicendo: Porta questa al Sottoprefetto Di Sala". In un successivo incontro, poiché il padre non si decideva ancora a pagare il riscatto, Francesco fu ferito al fianco sinistro con un colpo di baionetta. Uno dei briganti "diceva specificamente di voler far piangere a D. Peppino, padre del ragazzo, gli schiaffi che era solito complimentare a quelli a’ quali vendeva il grano".

Il 24 ottobre Di Mare consegnò ai briganti solo mille ducati e riebbe il ragazzo, "che stamane alle ore dodici ho restituito ai suoi genitori". Quando i briganti presero il danaro, "bestemmiarono contro il Ferrara ed il Volpe che avevano avuto causa a tutto questo promettendo mare e mondo, mentre appena loro era riuscito di avere la meschina somma di ducati ed anche segnati".

I pochi atti disponibili che ci raccontano del sequestro e delle sevizie praticate sul piccolo Francesco Altavista provengono dall'Archivio Giampietro di Brienza, conservato a cura del "Centro Studi Mario Pagano". Da tali atti è stato tratto il racconto che segue, contenuto in "Ottocento e una storia. Cronache semiserie dal secolo lungo" di Dino Collazzo (etCetera Libri, 2021).


FRANCESCO, SEI ANNI E UNA VITA DAVANTI (1865)

A Parigi sospettano ch’io poltrisca addirittura avvinazzato e che mi sia dato a baldorie e gozzoviglie, ça va sans dire. Spero solo che non m’addebitino un avanzo di monelleria e con esso i costi della permanenza. Non è che siano esosi e non saprei tuttavia come farvi fronte. Prendete, per esempio, questa tana umida dalla quale ora vi scrivo: mi costa dieci grana al dì. Un’altra miseria la spendo per esser accolto al desco del padrone (un cacheroso e invariato sfavillio di poltiglie nauseabonde). Poi le spesette di carta, d’inchiostro e d’un paio di candele di sego al giorno. Non so se la mia sia stata intuizione d’artista o capriccio di giovane giornalista sventato, appassionato di racconti di frodo.

Ero a Potenza, quando d’un tratto un mio informatore mi fischiò all’orecchio che in un paese della provincia, non troppo lontano mi disse, c’era un caso che avrebbe attirato l’attenzione dei lettori d’oltralpe. Stanco di raccontare gesta risapute, alle quali avranno ormai abituato l’orecchio, mi parve quella una primizia degna d’esser colta all’instante.

Mi sono rotto le ossa a dorso di mulo sui saliscendi che, attraverso paesi innominabili, dopo circa dieci ore di cammino aprono alla vista d’un castello che pare un’onza di foggia scozzese sbattuto nel mezzodie italico. Qui, mi dissero, era la meta dove avrei trovato un fatterello nuovo da raccontare.

Fatto è che vivacchio come un miserabile da più d’un mese in questa villata di debosce, senz’acqua che possa lavarmi degnamente almeno le estremità, pedinato da etere e signore che si reputan dogaresse le une non meno che le altre, non sapendo ancora se alla fine di questo mio ponzare possa dire che ne sia valsa la pena.

Ma un ordine s’impone, cosicché abbiate la pazienza di seguirmi e alla fine ne saranno rifatti i conti.

Dal fantolino non riesce a cavarsi una sillaba: è ancor vittima d’una paura ch’è un carapace armato per i miei argomenti di pasta frolla e il suo dire bleso. Del resto, si capisce: non riesco a immaginare un bambino parigino che, alla sua stessa età, esca almeno illeso da fantasmi grandi come i suoi. È conseguenza, dunque, che ogni elemento finora vinto alla mia impresa provenga da voci laterali, ritagli di sguincio. 

Narrano dunque i presenti che, la sera della catastrofe, nella grància che qui dicono casina per un supplemento d’accatto di burbanza, fossero presenti sette adulti, oltre ai tre bambini. Devo annotarli qui per mia memoria, non per vostro aggio, giacché che sappiate o meno dei loro nomi poco o nulla conta ai fini del calcolo finale. Dunque, i genitori del piccolo: don Giuseppe Altavista e la sua consorte donna Angiola Masini; la zia di Fran-cesco, donna Carmela; don Cataldo, Saverio, Maria Giuseppa e Paolo, gli ultimi tre servidori di casa.

I tre infanti, Francesco e i fratellini Michele e Giovannina (tutti poco più che lattanti, Francesco seienne, gli altri più piccoli) si trovavano in un bucuccio del quarto superiore, accuditi da zia Carmela. A voler essere pedanti, accudire è uno sproposito, Carmelina essendo poco più avanzata di loro, dall’alto dei suoi nove anni. Gli altri, tutti al quarto di sotto, compreso don Cataldino che, anche lui, sarebbe giustamente un pargoletto, coi suoi undici anni. 

Si direbbe un risico di bravo il lusso d’andare a villeggiare in contrade malsicure, in questi tempi ballerini. Quando mi son concesso la licenza di darlo a intendere a don Peppe, mi son beccato un’omerica e ringhiosa lavatina, adornata di nevrosi proprie della voce: che come osa un cacasodo di città, peraltro delle terre di Francia, curiosare d’indiscreto negli affari altrui? Ho seriamente rischiato di mandare a monte l’ufficio e con esso il mio talento.

È un fatto tuttavia che, assaliti da quattordici sgherri armati di revolveri e d’archibugi a mezz’ora di notte, le naturali resistenze dei tre servidori, pur devoti a un clamoroso sacrificio, a poco valsero. Tanto più che, alla vista dell’attacco fulmineo, don Peppe s’involò d’un fortunoso smarcamento, non pensando, disse, che i bravi osassero quanto osarono. Donna Angelina, poi, si diede a gnauli e a inascoltate devozioni. Rimasero dunque esposti, i tre infanti e i loro due zii fanciulli, alle prepotenze degli assalitori. Un diascolo giovane, armato di schioppo, con prava dilatazione di zampe superò in poco più d’un paio di passi la gradinata di legno che immetteva al piano superiore e sottrasse dalle braccia di Carmela il piccolo Francesco. Disse, dunque, ai compagni: «Abbiamo avuto il guaglione e poco c’importa del padre», prendendolo per mano e portandolo fuori dove se lo pose sulle spalle, scomparendo con gli altri.

Ripararono, dunque, papà e mamma affranti d’un rammarichio dell’animo, con un fanciullo di meno al paese. Attendevano un segno, un messaggio, una masciata che presto giunse a recapito. A tre giorni dal criminale rovescio, bussò al portone e fu ammesso a palazzo un bifolco che a domanda rispose nomarsi Antonio Trezza di Francesco, ventunenne custode di porci, nativo di Padula e dimorante abitualmente per ragioni del suo mestiere a Pratalanno, tenimento di quel paese. A consegne avvenute, disse Antonio di conferirsi nella casa di don Giuseppe per richiedere viveri per trenta briganti. Non trascurò d’assicurare che Francesco stava benone in salute.

Seduta stante chiese don Giuseppe man forte al sindaco che, d’un baleno, si assise dinanzi al porcaro. Antonio, alla vista di tanta autorità, s’annientò in un baciamano ossequioso. Stretto allo sguardo del sagace indagatore, all’apparenza si studiava Antonio d’apparire cretino. E quel 18 settembre 1865, il sindico e ufficiale di polizia s'ingaggiò in un’approfondita esplorazione dei fatti che conchiuse in un papiello, il primo d’una serie che si decorò d’un esito trionfale che vedremo. Volle, d’acchito, il sindico conoscere da Antonio in qual sito aveva dai briganti ricevuto la tale commissione e se conoscesse della comitiva i componenti. Antonio balbutì: “Son venuti a chiamarmi nel bosco Mandrano, e per forza mi hanno indotto a prestarmi, ma io non conosco nessuno, trattavansi di facce a me nuove e intorno a’ quali non saprei neppure dare indicazione di paesi ai quali potessero appartenere”.

Non aveva ancora terminato, Antonio, di pronunciare le ultime parole, che Carmelina, entrata di soppiatto nella sala, diede in un ascesso come d’isterismo: «Sei tu colui che, come uno de’ componenti la comitiva, facesti irruzione nel quarto di sopra sottraendomi dal grembo Francesco!». Al cospetto d’un tale referto, fu il Trezza sottoposto a riconoscimento, confuso fra diversi altri figuri della sua statura e approssimativamente di stessa fisionomia e ugual vestiario, sottratti ai loro impieghi d’imperio per un non procrastinabile incombente.

Don Giuseppe, al proclama della sorella giovinetta e alla vista d’un grappolo di paesani, sovvenne d’un primitivo scialbore di senno e senz’esitanza segnò a dito che nel forestiero s’identificava uno dei briganti. All’irreprensibile segno del padrone s’allinearono all’istante Saverio, Maria Giuseppa e Paolo i servidori e, a sua perentoria richiesta, persino don Cataldino e la moglie Angiolina. Tutti si fecero scudo d’un infingimento, persuadendo sé stessi prima che gli altri di non aver distinto il Trezza al suo primo comparire per una burla del ricordo, ch’è talvolta bizzoso. Né il sindico ne dimandò lor di conto.

Mi meravigliai, sulle prime, di quello spettacolare e portentoso ripensamento. Com’era stato possibile? Non era don Giuseppe evaporato in un turbine, gambe in spalla, alla vista degli ospiti molesti? Non eran le accusatorie proteste di Carmelina gli asserti d’una bambina, esposta a trastulli di fantasia non meno che a insidie dettate da paura? Eran questi, però, non meno che pruriti d’un perdigiorno di scrivano parigino, come i fatti più tardi m’avrebbero acclarato.

Da principio Trezza negò, chè le affermazioni di don Giuseppe, di suoi congiunti e di famigli eran ciacole e castelli in aria d’un visionario. Il venerdì precedente era rimasto tutto il giorno a travagliare di vanga in un fondo del padre; due compagni ch’eran stati con lui potevano attestarlo. Solo a sera s’era rimpatriato al paese, come avrebbe confermato il suo compare e vicino don Vincenzo Volpe. Che prestasser fede alla parola d’un prete, se la sua non era da tanto. Don Vincenzo poteva financo far sa-cramento della sua cristallina condotta morale e pubblica.

Il sindico giudicò, tuttavia, che proprio il Volpe fosse il capo almen morale d’una associazione di malfattori e spedì dispaccio al regio giudice Oro di procurare notizie sul conto dell’uno come dell’altro. Il funzionario assicurò far memoria, confidassero pure delle sue reminiscenze, d’una pro-cessura per le grassazioni compiute da Francesco Masini di Angelantonio in cui il Volpe non era stato estraneo.

Furono presi i debiti concerti con il Prefetto di Sala, i sindici di Padula e di Marsico, ufficiali e comandanti di Guardia Nazionale e dei Carabinieri perché ognuno contribuisse a circuire la località detta Mandrano con tutte le forze di cui potessero disporre, onde sorprendere i briganti. Lì si sarebbero trovati all’indomani, come disse Trezza, per consegnarsi i commestibili.

Si unirono dunque a Mandrano le falangi dell’uno e dell’altro versante e scovarono sull’estremo orizzonte della montagna quattro individui che camminavano con certo riserbo e s’inoltravano nella boscaglia. Colta da un sospetto, la forza si divise in varie frazioni nello scopo di circondare quell’altura, quando una voce d’allarme diresse lo sguardo di ognuno verso una piccola pagliaia sita nel bel mezzo del piano, dalla quale fuggivano diversi altri naturali, tra i quali due armati. Uno disarcionò una donna dal mulo che conduceva, impossessandosene. Cavalcandolo a tutta corsa, guadagnò l’erta della montagna; l’altro, fuggito per opposta direzione, a tutto ché alacremente inseguito, profittò della distanza per nascondere lo schioppo, menandosi a fingere di cavar patate. Il terzo, un ragazzo malsano e mutolo, alle pressure degli inseguitori rivelò che il secondo profugo era giusto colui che s’era finto cavar le patate. Dello schioppo non si trovò traccia, avendolo lui sepolto in qualche nascondiglio di quei macigni. Fu però il fuggitivo incatenato insieme col mutolo.

Michele Arcangelo Pinto, giovane bracciale padulese, cugino del noto Angelo Pinto, al bagno penale per scontare una condanna di vent’anni di lavori forzati per complicità in brigantaggio, si disfaldò come lavina. Con Antonio Trezza, Pasquale Lamanna e altri nove briganti forastieri capitanati da Nicola Marini, s’erano conferiti alla contrada Patrimonici per assaltare la casina di don Peppino. Li accompagnarono due guardiani di Brienza, uno un po’ balbuziente e l’altro con grandi baffi nei quali faceva capolino qualche pelo bianco. Rapito il ragazzo, presero la via del bosco Vivo dove l’ostaggio passò in mano dei caporioni della comitiva. Su ordine degli stessi, i manovali si ritirarono a Mandrano in attesa di ordini. Al sabato, Marini li raggiunse col ragazzo, ingiungendo di portarlo a Padula in casa di don Vincenzo Volpe. Così fecero e, picchiato che ebbero alla porta del prete, don Vincenzo accolse Francesco con fare accorto e affabile, mettendosi subito a mensa dove l’imboccò avvilito dalla fame, mangiando maccheroni, cavoli e carne a lesso. Francesco rimase affidato alle cure del prete che comandò il Pinto e il Trezza di incaricare la comitiva che si fosse spedito qualcuno in Brienza alla famiglia Altavista a chiedere viveri e altro, potendosi assicurare i genitori che il ragazzo stava benone. Pinto raccontò persino com’erano abbigliati la notte del ricatto: Pasquale Lamanna era travestito con abiti belli e, lungi dal portare le zambitte, era calzato di scarpe eleganti, per non destar sospetto. 

Sulla confessione del Pinto furono arrestati il Lamanna, Pietro Di Giuda, Giuseppe Pinto e il prete.

Ora, proprio un prete immischiato in tali ordigni solleticò il mio acume di cronista. A me non destò soverchia meraviglia, aduso oramai alla nefandigia di questo pezzo d’africa europeo: del resto, m’han raccontato di preti che non disdegnano in queste contrade di pascolare il cotale in verzieri di succulente primizie, immacolate, prim’ancora che siano sbocciate del tutto. Or mi parve che questo fosse ancora uno sfogo naturale di umane debolezze, ad onta della castità offerta a Dio, seppur con una postilla nel margine e del prepotente improperio inferto alle vergini assalite. D’un prete convolto nel sozzissimo peccato del ricatto, mai m’era tuttavia occorso di rac-contare. Reputai dunque esser quella una pista da battere per gli esigenti lettori d’oltralpe.

Pasquale Lamanna, al contrario del compagno, si negò d’un silenzio ostinato. Non sapeva del ragazzo: «Io non ho ragazzi, tengo invece due figlie femmine». Né sapeva dello schioppo: «I miei fucili sono nella pagliaia», alludendo alle zappe con che scavava le patate. Alla contraddizione del Pinto e del Trezza, che sostennero Pasquale far parte della comitiva, rispose pertinace: «Costoro son due imbecilli che ignorano se sian vivi».

Antonio Trezza, e qui si svela quanto infondati fossero i miei sospetti sul primo incedere dell’esplorazione dei fatti, invitato a coscienziosamente smettere il pertinace silenzio, confessò che realmente egli fece parte della comitiva e che aiutò a portare il ragazzo fino al Vivo, senza smentire nessuna delle circostanze articolate dal Pinto. Egli aveva dovuto però pur cedere a una forza maggiore, in opposto Nicola Marini l’avrebbe ammazzato. Della comitiva facevano parte anche un tale detto il battipagliese e due naturali di Brienza, di nome Pasquale e Michele. E che sì, nel giorno di sabato il ragazzo era stato consegnato nelle mani del prete Volpe.

Don Vincenzo, un pilastrone già avanti negli anni, non nascose di agguattare in casa una specie d’arsenale d’armi vietate: due schioppe con munizioni, un fucile paesano e un bastone animato da spada. Si schermì ammettendo che il traditore di Angelantonio Masini, tale fabbricator Gerardo Ferrara, avesse sposato una sua nipote. Bofonchiò di conoscere Antonio Trezza, un giovane non ozioso, pur non potendo dirne tutto il bene che per avventura potesse spettargli. Quanto a Pasquale Lamanna e a Michele Arcangelo Pinto, non erano per lui che nomi vacui, ai quali non poteva abbinare un sembiante. Quando gli resero noto che era da considerarsi in ar-resto, avendo due confessi dichiarato ch’egli era stato il promotore d’una associazione di malfattori; che tali malviventi aveva nutrito con salviette piene di viveri; che aveva preso in deposito in sua casa il piccolo Altavista e che tenne a mensa costui e uno dei briganti; l’imperturbabilità di don Volpe prese a diffaltare. Chiamò a testimoni i santi del paradiso e con acutezze d’accenti proclamò la sua incontaminatezza. Gli fu quindi presentato a cospetto il Trezza, il quale per filo e per segno raccontò in contraddizione la storia del luttuoso avvenimento, dagli esordi e fino al momento della tavola imbandita. La freddezza marmorea del Volpe, a quel punto già gravemente compromessa, si svilì in un’iradiddio di sconce imprecazioni e giuramenti in controsenso, dicendosi egli vittima d’una tiritera. «Giacché costui nega, fategli dire le medesime cose da Michele Arcangelo Pinto», concluse Antonio con gesto che sembrò pontificale. Il Pinto venne e con tutto il sangue freddo, con la maggiore impassibilità sostenne nella contraddizione del Volpe primieramente ch’egli gli aveva intimato di darsi a infame carriera e, da ultimo, che con le proprie mani gli aveva consegnato il ragazzo. 

A dispetto dei patenti progressi, di Francesco tuttavia non v’era traccia. Nessuno poteva dire dove fosse finito. «Io ho consegnato a voi il ragazzo, quindi voi sapete e dovete dire dove attualmente è», rinfacciò il Pinto al Volpe con inimmaginabile audacia. «La mia condotta è conosciuta in Padula. Son figlio a Cono Volpe e non ho bisogno qua di discarichi, al confronto di questi baccalà», conchiuse finalmente il prete, rinserrandosi in un astioso e olimpico silenzio. 

Trasmessi gli atti fino a quel momento compiuti al Tribunale di Guerra sedente in Potenza, le attenzioni furono allora rivolte ai complici brienzani: i due guardiani del bosco, uno balbuziente e l’altro dai grandi baffi coi peli biancastri. Michele e Pasquale, li avevano chiamati i confessi. Per non insospettirli, tutt’e cinque i guardiani furon convocati sotto pretesto d’una operazione relativa ai demani. Disposti in fila col capo coperto, alla rinfusa furono sottoposti a riconoscimento, non prima d’aver annotato che Michele Russo era balbuziente per effetto d’un colpo di scure, in seguito di quale cagione aveva sofferto una pericolosa malattia e che Raffaele Macchia aveva grandi baffi alla brava di color rosso che inclinava quasi al bruno sporco. Prima interrogati, Giuseppe Maria De Luca e Raffaele Macchia risposero di nulla sapere del sequestro, perché il venerdì la sera si erano ritirati in Brienza verso un ora e mezza di notte. Gli altri tre attestarono di esser rimasti in campagna, facendo prima sosta alla masseria di Carmine Coiro e poscia a quella di Rocco Chiattone, ove mangiarono un poco di minestra e dormirono. Destò studio che, benché avessero visto passare gente sospetta, non avessero denunziato all’autorità militare un tale avvenimento, ma dissero quelli non averlo creduto espediente per non mettere in allarme il paese.

Pinto, introdotto libero d’ogni ligame e invitato a fare le debite asserzioni intorno alle persone esposte al suo riconoscimento, disse di non conoscerne nessuno, «perché non voglio ingannarmi la coscienza». Rivelatisi perciò vaghi gli indizi, si dispose che i guardiani restassero nel corpo della Guardia Nazionale onde aversi l’agio di poter interrogare le persone che frequentavano il bosco intorno ai movimenti che detti guardiani avevan potuto fare.

Fu richiesta allora la traduzione del Trezza per replicarsi il riconoscimento ma il sottoprefetto di Sala si rifiutò sotto il pretesto d’esser egli indispensabile in Padula per altre interessanti operazioni di giustizia. In un cul-de-sac, ritennero gli inquirenti un fatto che i testimoni richiesti per esser interrogati sulle mosse degli indiziati non si fossero presentati, per la qual cosa si sospettò forse che sotto tal contumacia si nascondesse qualche segreto e che fosse esso motivato specialmente dal maneggio degli indiziati. E dato che balbuziente era Michele Russo e falbo di pelame, con grossi baffi lavati il Macchia, com’avevano assicurato i confessi; che se il Pinto non ne riconobbe alcuno, ciò potesse dipendere dall’avergli egli visti una sola volta e armati e in atteggiamenti feroci e forse travestiti e con diverse spoglie; non avendo il Russo e il Macchia saputo fornire sufficienti notizie delle rispettive mosse e essendo stati contraddittori fra loro; essersi confessati d’esser a loro conoscenza la comparsa di sospetti nel bosco e non avendo riferito tale novità all’autorità politica e militare, com’era loro dovere; tuttoché risultò essere specialmente il Macchia invitato a tanto eseguire dal capitano, circostanza che per la legge repressiva del brigantaggio ren-deva criminosa la di loro reticenza e tanto più che un loro allarme avrebbe potuto porre don Giuseppe sull’avviso, informato del pericolo che correva rimanendo in campagna; dando ascolto alla pubblica opinione che non sarebbe stata favorevole agli indiziati a dire di molti; volendo dell’un verso impedire che essi, in caso di precisa colpabilità, avessero a ingrossare le fila dei briganti e, dall’altro, somministrare alla giustizia l’agio di poter inquirere con precisione sul di loro conto; e riflettendo infine che in fatto di brigantaggio la cautela e la preveggenza non sono mai sufficienti; tutto ciò considerato comandò l’autorità di trattenere il Macchia e il Russo in catene.

Alle successive inquisizioni, parve aggravarsi la posizione dei due guardiani. S’era vista una frotta di dodici o tredici uomini armati che s’aggiravano pel bosco e Russo e Macchia che, sopraggiunti, s’avviarono secondo la stessa direzione seguita dai briganti. Temendo poi che nel corso della notte gli fossero rubate le patate, un contadino restò a custodia delle stesse e, tramontato il sole, fu raggiunto da Raffaele Macchia. Si diresse egli verso la casina Altavista, onde giudicò il contadino fosse spia, quando il giorno appresso seppe del ricatto, fondando il suo giudizio anche sul fatto ch’egli aveva preso la prima moglie in Padula.

Un tal Carmine Dimare fu adoperato pel riscatto, perché avesse inteso dai briganti quali fossero le pretese per rilasciare il ragazzo. Si conferì quel volontario nel monte Vivo e gli si pararono davanti sette ceffi, tutti dell’età da trenta a quarant’anni, vestiti alla foggia di Padula, meno il primo giovinotto con calzone blu con striscia rossa come quella dei Carabinieri. Eran tutti mastri, sartori, calzolai e simili, come anche confessarono due di loro. Sul versante che sporge sopra Padula, gli presentarono il ragazzo, colà condotto da tre giovani similmente armati: due si dissero l’uno capitano e l’altro tenente, il terzo era ignobilmente vestito. Francesco sorrise nel vedere Carmine Dimare, pensando forse che lì s’esaurisse la sua prigionia, ma i briganti chiesero di riscatto una somma di diecimila ducati.

Era a quel momento Francesco nelle mani degli sconosciuti ormai da quasi un mese. Dimare tornò all’indomani dicendo che don Peppino non poteva sborsare tale somma e aggiunse del suo che d’altronde del ragazzo doveva rispondere il prete, già in mano alla giustizia. Che mostrassero dunque un’unghia pietà, potendo tutto guadagnare mentre del fatto rispondeva Volpe. Risposero quelli che poco gli importava del prete e che anzi essi avrebbero complimentato all’Altavista mille ducati se fosse stato condannato a morte. Sua era tutta la colpa del ricatto, che loro certamente non avrebbero fatto, se da questi non avessero saputo che solo scopandosi la casa Altavista avrebbero potuto cacciarne ventiseimila ducati. Donna Angelina aveva pure voluto che Dimare aggiungesse che solo per le cure prestate al ragazzo si sarebbe sforzata a mandar loro un complimento di trecento ducati. A sì tenue proposta, come di chi mostrava di non temere pel ragazzo, il capitano indispettito prese un coltello e tagliò da Francesco buona parte dell’orecchio dritto che avvolse poi in una carta: «Porta questa al sottoprefetto di Sala». Continuarono gli incontri e il tira e molla, la banda minacciando di voler uccidere Francesco che fu realmente ferito a un fianco. In un eccesso d’ira, uno dei malfattori disse ch’era giunto il tempo di far piangere a don Peppino gli schiaffi ch’era solito complimentare a quelli ai quali vendeva il grano. 

Calmatisi d’un primitivo impeto, ristrinsero diffinitivamente la loro domanda a ducati mille e dugento. Il 23 d’ottobre Dimare concluse l’affare per mille ducati, di cui i briganti si dissero contenti. Il giorno appresso, giusta lo appuntamento, Dimare pagò. S’avvide tuttavia il capitano che i ducati eran tutti segnati e minacciò di tagliare la testa al ragazzo e le gambe al corriere. Bestemmiò contro il Volpe, che aveva avuto causa a tutto promettendo mare e mondo, mentre appena loro era riuscito di avere quella meschina somma di ducati ed anche segnati. Dimare riebbe comunque il ragazzo che alle dodici fu restituito ai genitori. 

Or si reclama la presenza di Francesco a Potenza, coltivando l’illusione ch’egli possa procurare i decisivi elementi per la definizione del caso. Non nutro io credito in siffatte aspettative: appena disse, Francesco, in una confidenza di figlio, d’esser stato tenuto in una grotta e in masserie d’animali e che due donne vi portavano del mangiare, terminando in un pianto disperato, circondato d’un ballo di fantasmi, il suo magro racconto. Mutolo, sfregiato, con un orecchio di meno e una ferita di punta di coltello o baionetta in una banda, il terrore che gli si legge tutto scritto sul visino pallido, cosa volete che possa raccontare?

Si specula, dissimulando il pantano nel quale s’è infangata l’esplorazione, che la banda non fosse composta da briganti famosi, reputando così d’offrire un attacco logico al conquesto. Un forte nucleo di masnadieri che non sappia circuire una modesta casina in modo da impedire la fuga di coloro che vi alberghino è comitiva poco esperta del mestiere. Un capobanda matricolato che trova ragazze bellissime e verdi, senza difesa in sito lontano e in prossimità d’una catena di boschi, avrebbe dovuto sapere che il più officioso modo di cacciar denaro era il sequestro d’una moglie, d’una sorella anziché d’un ragazzo di sei anni o almeno le cupidigie e le li-bidini si sarebbero suscitate: così ragionano. Si dice questo un fanale che guidò le indagini sin dal suo primo incedere. 

S’ingarbuglia ancora il caso d’una querela che’è sorta fra il tribunale di guerra di Salerno e quello di Potenza sulla competenza, quando dovrebbe risultar essa palese, avendo la comitiva armeggiato nel territorio di Brienza. Il Giudice di Padula, poi, rappresentò i fatti in modo alquanto dissimile da quelli onde sono esposti dal sindaco di Brienza. Questi s’avventurò su un friabile terreno, quando cicalò un pensiero: e cioè che l’impunità e il premio conseguito da Gerardo Ferrara per la connivenza e di poi pel tradimento fatto a Masini resero arditi gli altri e forse non è oggi il Volpe che un presto nome del Ferrara e forse non è estraneo alla combriccola qualche famoso personaggio che rannoda le relazioni fra Padula e Brienza. Assunti d’un malandrino, giudicò il prefetto. E il sindaco di Marsico, dal quale egli pretese un più spassionato resoconto, si fida d’affermare come sia troppo chiaro che in Padula vi siano dei manutengoli che credonsi galantuomini mentre non sono che i primi assassini.

Io qui m’attesto in attesa che il caso si conchiuda: che non si debba ancora aver lo scorno che i colpevoli rimangano impuniti.

Di come il caso si risolva, leggerete presto sulle colonne del giornale, miei cari lettori e compatrioti.

L’attenzione della stampa estera per il brigantaggio meridionale fu molto vasta. In particolare, per ciò che riguarda la stampa del Secondo Impero, si è fatto riferimento al saggio “Il fenomeno del brigantaggio post-unitario nella stampa del Secondo Impero” di Giovanni Ferrarese (in “La prima emergenza dell’Italia unita, Brigantaggio e questione meridionale nel dibattito interno e internazionale nell’età della Destra storica”- Atti del convegno di studi, Salerno, Fondazione Spadolini Nuova Antologia 12 dicembre 2013).

Commenti

Post popolari in questo blog

L'INVENTARIO DEI BENI DEL MAGNIFICO GERARDO D'ELIA

CESARE LENTINI, BARONE DI GALLICCHIO E MISSANELLO / I PARTE

IL TESORO DI LITTERIO