L'INVENTARIO DEI BENI DEL MAGNIFICO GERARDO D'ELIA

 Si accomodino, Signori. Prego!
Entrino pure in una casa di Brienza del 1767


Il Magnifico Gerardo D’Elia


Il Magnifico Gerardo D’Elia, dottore figlio del dottor Pietro D’Elia e della Magnifica Anna Ferrarese, viveva nel 1767 in una casa della Ruga di Santa Maria di Brienza.
Incerte sono le origini di questo ramo dei D’Elia, da non confondere con l’altro, proveniente da Pietrafesa, dal quale discesero don Vincenzino D’Elia, Don Giuseppe De Luca senior e junior e, prima ancora, Don Antonino D'Elia senior e junior e Cataldo D'Elia.
Proveniva da Tito la Magnifica Isabella D’Elia, che sposò il Notaro Domenico Paternoster(1). Non è possibile stabilire, allo stato, una relazione di parentela fra Isabella e Pietro D’Elia, padre di Gerardo. È probabile, tuttavia, che anch’egli provenisse dal paese del Potentino. Ancora nel 1680, difatti, nessun D’Elia fu registrato nello Stato delle Anime compilato in quell’anno. È ragionevole quindi ipotizzare che, dato il comune rango (entrambi furono registrati col titolo di Magnifici), Isabella e Pietro fossero in qualche modo imparentati e che, una seguendo l’altro, avessero sposato entrambi loro “pari” a Brienza.
Anche Anna Ferrarese, moglie di Pietro, era difatti figlia del Magnifico Giuseppe e di Titta Daunio(2), nata probabilmente nel 1676. La famiglia Ferrarese era, all’epoca, una delle più altolocate del paese. L’Arciprete della chiesa locale del 1662 era difatti un Ferrarese (del quale non è stato ancora possibile conoscere il nome) e conviveva con Giulia Calcagno e Camilla Mangiero(3), vedove dei suoi nipoti.
Anche Gerardo D’Elia prese in moglie una Ferrarese: Carminella, figlia dei Magnifici Francesco e Orsola Guglielmo(4). Nel 1745 il loro nucleo familiare fu registrato alla casa n. 21 della Contrada di Santa Croce, insieme con i figli Anna (1737), Pietro (1738) e Teresa (1741). Gerardo aveva, all’epoca, 24 anni: era dunque nato nel 1721.
E, per rinsaldare gli interessi familiari, persino la sorella di Gerardo, Teresa, sposò un altro Ferrarese: Francesco Antonio, di Addieco(5) e Ippolita Leopardo. Un’altra sorella, Camilla, andò in moglie al Magnifico Giovanni Antonio Restaino(6). La terza sorella D’Elia, Rosamaria, sposò invece il Magnifico Nicola Mangiero(7).

Gli “urgenti suoi affari”

Il 10 febbraio del 1767, dovendo il Dott. Gerardo D’Elia partire dalla Terra di Brienza «per urgenti suoi affari» e lasciare la casa «in potere» dei figli, il sacerdote Don Pietro, Annamaria, Teresa e Luigia, decise «per suoi giusti fini» di redigere un inventario di tutti i beni mobili e semoventi esistenti nella sua casa. 
Non conosciamo quali fossero gli «urgenti affari» che costrinsero Gerardo ad allontanarsi da Brienza. Né egli esplicitò quali fossero quei «suoi giusti fini» e le ragioni che lo indussero e cautelarsi in tal modo, né indicò se tale cautela fosse adottata a favore dei figli o per sfiducia nei loro confronti. Tre di loro erano già ormai adulti: Anna Maria aveva difatti trent’anni, Don Pietro ventinove e Teresa ventisei. Solo Luigia, la più piccola, non aveva ancora quindici anni. 
Alla redazione dell’atto presenziarono solo Anna Maria e Teresa. Possiamo ipotizzare che Luigia non vi partecipasse a causa dell’età non ancora matura. Volle Gerardo proteggere proprio Luigia, la più piccola e orfana della madre, nei confronti degli altri fratelli? O proprio l’assenza di Don Pietro può rappresentare la spia, invece, di un disagio che covava all’interno della famiglia? Solo dieci anni più tardi, tuttavia, Don Pietro conveniva con i fratelli Don Celio e Domenico Viscardi la dote di Luigia per il matrimonio da contrarre con Filippo Viscardi (nipote di Don Celio e figlio di Domenico). Promise alla sorella la somma di 240 ducati in contanti, oltre ad altri 60 ducati provenienti dal Monte de’ Calcagni. Emerge, dal documento, ancora una volta la posizione della famiglia, perché i Viscardi donarono direttamente alla sposa la somma di 200 ducati ob disparitate, oltre a donare a Filippo l’ulteriore somma di 500 ducati «per costituirseli in patrimonio per farlo privilegiare da notaro» e, nel caso che a tanto non riuscisse, in beneficio dei figli nascituri. A fronte, comunque, d’una dote di 300 ducati assicurati alla sorella da Don Pietro, i Viscardi furono costretti a privilegiare Filippo con più del doppio di tale somma. E tutto ciò per la “disparità” di condizione sociale esistente fra l’uomo e Luigia.
Non conosciamo, invece, di quale dote fu provvista Teresa, che andò in sposa al Magnifico Giuseppe Labriola(8).

L’inventario

Il documento, redatto dal notaio Giovanni Spolzino, fu stilato nella casa di abitazione di Don Gerardo, nella “Ruga di Santa Maria”. Dallo Stato delle Anime di Brienza del 1745 si evince che tale abitazione era più precisamente situata nella Rua di Santa Croce. Poiché nel 1783 Don Pietro D’Elia fu registrato, da solo alla Rua di San Michele de’ Greci, mentre Filippo Viscardi e Luigia D’Elia compaiono alla casa n. 278 di Santa Maria, possiamo ipotizzare che la coppia continuò a risiedere nella casa del padre di Luigia.

L’atto appare di certa importanza, giacché fornisce un quadro dettagliato degli arredi e di tutti gli altri beni mobili di cui era dotata una casa di Brienza nel Settecento. Occorre, al riguardo, evidenziare che si trattava della casa d’una famiglia di alto rango. Lo dimostrano i fatti che siamo andati sin qui narrando e lo dimostra, ancora, la professione di Gerardo D’Elia, che con tutta probabilità fu un legista, ovvero un uomo di legge. Tanto è possibile affermare perché il 4 aprile del 1770 il Reverendo Don Leonardo Giampietro, facendo testamento nella sua casa di San Rocco in favore del nipote Magnifico Giuseppe Antonio, dichiarò essere «in suo potere alcuni libri legali degli eredi del sign. Gerardo D’Elia, onde vuole che si restituiscano quante volte detti eredi si pagheranno carlini 25».  

Il testamento di Don Leonardo Giampietro ci fornisce anche un metro di paragone, per valutare la consistenza degli arredi e degli altri beni mobili esistenti in casa D’Elia. Il “frate pittore” lasciava difatti al nipote, oltre alla porzione a lui spettante «sopra alla casa ove al presente abita, consistente in dodici stanze, anche un cassone di noce e quattro di castagno, tutti li quadri, tutti li libri, una caldaia mezzana, due caldaie piccole, tre sartagini, un caccavo, due bacili di rame, un capofuoco, tutte le botti, pannamenti, letti, due brocche, un cocchiaro, coltello e tabacchiera d’argento». Alla Cappella di San Giuseppe era infine destinata un bambino con cassa. Pur potendo ragionevolmente ipotizzare che i mobili descritti non fossero tutti quelli presenti nella casa «di dodici stanze» dei Giampietro, ma solo quelli di pertinenza di don Leonardo, occorre pur sempre considerare che il testatore aveva guadagnato nel corso della sua vita considerevoli somme, insieme con il fratello don Leonardo, per essere stati entrambi pittori di certa fama. Del resto, la consistenza del patrimonio immobiliare (la casa di dodici stanze e ancor più il palazzo che la sostituirà ai primi dell’Ottocento) dimostra da sola l’agiatezza della famiglia. E benché la descrizione degli arredi di casa non sia così puntuale come quella convenuta nell’inventario di Gerardo D’Elia, confrontando i due patrimoni mobiliari balza evidente quanto quello di quest’ultimo fosse più ricco.

Gli abiti e i tessuti

Il quadro che l’inventario restituisce è alquanto variegato. 
Nell’esordio, sono descritti gli abiti delle figlie di don Gerardo, conservati in un «baulle» usato. L’intero guardaroba era costituito da due abiti interi di damasco, uno dei quali gallonato d’argento alle estremità del corpetto e della gonna. Questo secondo capo, in particolare, doveva essere particolarmente lussuoso e di grande eleganza, per il tessuto pregiato e per le rifiniture d’argento. Una «tedeschina di Anverre» era forse una giacca alla tedesca di stoffa di Anversa. Di colore verde, aveva anch’essa i bottoni di filo argentato. Un sottanino di lana di cammello («cammellotto») era tutto gallonato d’argento. «Fiammeggiati» erano una gonnello con corpetto di «ermesino», un tessuto di seta leggero e pregiato. Di lana raffinata («scardata») e nuova era la mantella.
Il letto era circondato da uno «spioviero», il manufatto realizzato con fasce di stoffa (in questo caso una tela fina di casa) e utilizzato a mo’ di padiglione, tutto ornato di merletti («pezzilli») e arricchito da un «tornaletto». Un’altra tenda da letto («cortina») era usata e di panno vecchio. Il corredo si arricchiva di sei cuscini merlettati, quattro grandi e due piccoli, con fodere rosse di «armesi» (probabilmente d’ermesino), di due lenzuola di tela, una merlettata, e di altri due cuscini pure di tela e con merletti. Ad altre cinque lenzuola «ordinarie» si aggiungevano due coperte di cotone, una con fiocchi e l’altra con merletti, e cinque altre coperte: una di panno, nuova e con la frangia verde, due vecchie, una verde e una turchina, due usate, una di «manforte» e l’altra liscia di cotone («bambace»), entrambe imbottite. A due materassi di stoppa si aggiungeva quello di lana del Canonino Don Paolo Curto, con coperta di cotone e sei lenzuola (quattro usate e due nuove). Accanto ai letti, due orinali nuovi, con «vesti», probabilmente le pezze che servivano a nasconderli alla vista.
Nella cucina, una tovaglia da tavola con tre tovaglioli, tre tovaglie vecchie, un’altra tovaglia nuova di fiandra, due tovagliette per mobili di tela di Persia, un quadrello con galloni d’argento, due grembiuli, bianco e turchino, entrambi di ermesino.


Gli arredi, i quadri e i libri

Anche gli arredi erano di certa rilevanza. Nella «camera grande», probabilmente adibita a sala da pranzo, uno stipo in legno di noce contenente stoviglie di ceramica («faienze»), brocche («giarle») e quattro bottiglioni di vetro («piretti»), quindici piatti e altri vetri, sottocoppe. 
Nella «camera nuova», invece, un altro stipo era pieno di cristalli, vetri e tazze («chiccare») con piattini e due cioccolatiere usate. Le camere erano adornate con quattro quadri dalle cornici dorate, un presepe e una statuetta di Sant’Antonio. 
Per difendersi dal buio, tre candelieri, due nuovi di ottone e uno di stagno vecchio.
Nella cucina, tre cassoni usati, un banchetto per sedersi al fuoco e un altro per tenervi i piatti. Gli attrezzi erano costituiti da due caldaie, una grande e una piccola, da una padella («sartagina»), uno spiedo, una graticola, un treppiedi e due catene di ferro. Alle pareti della cucina pendevano altri sei quadri, grandi e piccoli.
Nello studio, in uno stipo a tre scaffali («scanzie») erano riposti 101 libri, di cui 16 grandi, 63 mezzani (di cui 33 manoscritti) e altri 22 stampati e manoscritti. L’arredamento era completato da due mobili («boffette») in noce, uno grande con cassetti e l’altro piccolo senza, entrambe ben rifiniti («contornate»). Alle pareti, quattro quadri con cornici nere e, addossati ad esse, quattro scrittoi, grandi e piccoli, con chiavi. Completavano l’arredo dodici sedie.
I quadri erano in totale sedici, fra grandi e piccoli. Due i bracieri («brasciere»), usati di rame e «con piedi».
Fra gli altri mobili si annoverano ancora un baule, nuovo e «fiammeggiante», di «ferro di vacchetta» con serratura; due scatole di abete, pure fornite di chiave; una cassa verniciata nella quale erano custodite le «scritture di casa», un cassone di noce e una cassa di castagna, un altro mobile piccolo di noce con cassetti, due piccole casse «con robbe delle figlie», tre piedistalli in legno e un trabiccolo per mettere i panni a scaldare sul fuoco («trabacca»). 

Cibo, animali, armi e attrezzi

In cantina erano custodite tre botti grandi (della capacità di 10 e 11 some), due piene di vino «bollito» (9), l’altra di 7 some vuota. Vi erano altre due botti piccole da 4 some, un botticello per l’aceto e due barili usati. Nella dispensa e nelle stalle, due maiali, uno «intiero» già pronto per l’alimentazione quotidiana e l’altro ancora da macellare «per commodo di casa»; un altro «porcello per l’anno venturo» e il quarto «che tiene Giovanni Caragno per il prezzo di carlini sedici»; un somaro, cinque tomoli di farina, due di mischia con un mezzo tomolo per misura.
Completavano il quadro le armi e gli attrezzi. Don Gerardo aveva con sé una «scoppetta» grande, guarnita di ottone; un’altra «scoppetta» per la caccia al beccafico, pure guarnita e una canna di «scoppetta» montata su un manico di legno con ottone, comprata da Don Michele Menafra. La presenza di «due reti di Pernici» già di proprietà di D. Paulo Curto assicurano, almeno, che le armi fossero, almeno in via principale, utilizzate per la caccia. Infine, due piccole zappe, due asce, una forbice da pota e una accettola erano i soli attrezzi da lavoro.


NOTE:
(1) Tale dato si trae dallo Stato delle Anime del 1745, nel quale si indica che Domenico Paternoster, di Gianbattista e Laura Sabbatella, era rimasto vedovo prima di Laura Taurisani “del Sasso” e poi appunto di Isabella D’Elia di Tito (casa n. 8 di San Cataldo).
(2) Stato delle Anime 1680.
(3) Stato delle Anime del 1662.
(4) Francesco Ferrarese, nato nel 1683, figlio di Antonio e Caterina Grosso, fu registrato nello Stato delle Anime del 1745, di anni 62, alla casa n. 42 della Piazza.
(5) Addieco, di Giovanni Antonio e Violante de Sociis, di anni 71 nel 1745, fu registrato alla casa n. 24 della Rua di Santa Maria. Da Francesco Antonio e Teresa D’Elia nacque Nicola, padre del noto frenologo Luigi Ferrarese.
(6) Giovanni Antonio Restaino, di Nicolangelo e Giovanna Menafra, di anni 42 nel 1745, era fratello dell’Arciprete Dottor Don Filippo Restaino. Furono entrambi registrati nella casa n. 23 del Fosso di Maschito. Già nel Seicento la famiglia Restaino aveva due preti alla Chiesa locale: don Francisco, di anni 35 nel 1665, Cantore dal 1669, e don Angelo, di anni 40 nel 1665. Nello Stato delle Anime del 1680 è registrato il chierico Nicolangelo Restaino, padre di Giovanni Antonio e di Don Filippo.
(7) Di Camillo e Carmina Lentino, aveva 46 anni nel 1745, quando fu registrato alla casa n. 1 della Contrada del Casale. Camillo Lentino era già stato indicato quale Magnifico nel 1680.
(8) Giuseppe Labriola, di Michelangelo e Porzia Ricciardi, fratello del Magn. Gianpietro, è riportato insieme con la moglie nella casa n. 505 della Contrada di Maschito, nello Stato delle Anime del 1783). 
(9) Una soma era pari a 58,16 litri. Le due botti piene, per un totale di 21 some, garantivano dunque una scorta di vino di più di 1.221 litri. Approssimativamente, dunque, il consumo di vino era intorno a 3 litri e mezzo al giorno.

Commenti

  1. Validissima iniziativa, da sostenere senz'altro.
    Per parte mia il massimo sostegno per tutto quanto riguarda, in particolare,don Giuseppe De Luca, che a Brienza trascorse i primissimi e fondamentali anni di vita.

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  2. Anna Maria Mecca14/03/23, 14:30

    È bello disporre di un blog sulla storia di Brienza! Conoscere nei particolari una dimora signorile!
    L'arredamento dettagliato, le suppellettili, l'abbigliamento, la biancheria le attrezzature della cantina... ed altro!
    Mi è sembrato di fare un viaggio nel tempo:
    ho visitato una casa gentilesca di Brienza del diciottesimo secolo!
    Essendo un'appassionata di ceramiche, mi ha sorpreso sapere che in una casa burgentina c'era la pregiata ceramica faentina!
    Complimenti e grazie, Dino, perché ci hai dato e ci dai tuttora la possibilità di conoscere sempre meglio il nostro paese ❤️
    Anna Maria Mecca.

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