CESARE LENTINI, BARONE DI GALLICCHIO E MISSANELLO / I PARTE


LO STEMMA DEI LENTINI DI BRIENZA

Nella seconda cappella sfonnata dalla parte destra della Chiesa di Santo Zaccaria di questa terra esiste tuttora il tumuletto nel suolo a latere dell’altare di San Gaetano [1]. Si tratta della sepoltura di Cesare Lentini, dottore brienzano, barone dei feudi di Gallicchio, Missanello e Castiglione.

La cappella di San Gaetano, che il barone elesse per sua sepoltura, apparteneva allo jus patronatus della famiglia.
Sul pavimento della stessa cappella è ancora visibile (purtroppo negletta, coperta con ogni sorta di oggetto) la pietra sepolcrale sulla quale è inciso: BARO JACET PRIMIS CAESAR LENTININUS IN URNA HANC Q^ PATERNOSTER CONFIERI ANTONIUS FECIT UTQUE NEPOS FRANCISCUS EI SUCCESSUS III ISTO GAJETANUS ALMI PATRONUS JURE SACELLO OBIIT DIE 25 SEPTEMBRIS- A.D. 1755.
Solo l’anno in cui il sepolcro fu realizzato è di immediata comprensione; tutto il resto necessita di essere interpretato e descrive, in parte, la storia della più ricca e potente famiglia del luogo, al netto di quella marchesale dei Caracciolo di Brienza.
Chi erano dunque i Lentini di Brienza, famiglia alla quale appartenne Cesare, barone di Gallicchio, Missanello e Castiglione? È quanto ora cercheremo di scoprire.

I LENTINI DI BRIENZA

È singolare che, nei pur numerosi studi che si sono occupati della storia del nostro paese, la famiglia Lentini sia poco o per nulla ricordata. Non ne parlò Francesco Paternoster nei suoi libri più famosi; non ne ha parlato Giovanni Antonio Colangelo, pur attento a importanti dettagli della vita religiosa e sociale. Pochi anni prima della morte, ricordo che me ne parlò mio fratello Mariano: la prematura scomparsa gli impedì di lasciar traccia delle sue ricerche.
Il motivo di tale silenzio deve essere ricondotto alla circostanza che i Lentini del barone Cesare scomparvero completamente dalla vita di Brienza già nella seconda metà del Settecento. Dopo la morte di Cesare, difatti, continuarono a vivere a Brienza due dei suoi fratelli: il reverendo don Gennaro, cantore della parrocchia, e la sorella Agnese, vedova di Francesco Antonio Cavallaro di Calvello. Alla loro morte, avvenuta prima del 1783 (nessuno della famiglia fu difatti censito nello Stato delle Anime di quell’anno, nel palazzo della Rua di San Zaccaria) ogni traccia dei Lentini si perde.
La prima testimonianza storica relativa ai Lentini si rinviene nello Stato delle Anime del 1665. Il dottore Cesare (1629) aveva sposato la Magnifica Laura Ferrarese (1632). Lo status della famiglia è segnalato, oltre che dal titolo professionale di Cesare, dal fatto che il fratello don Giovanni Battista fu parroco del paese fino a quell’anno, quando gli successe don Giacomo Menafra.
Non è agevole rintracciare le origini della famiglia. Non esistono, difatti (o almeno non sono stati ancora scoperti) documenti storici che possano confermare l’ipotesi, avanzata da alcuni, che vorrebbe i Lentini di Brienza essere un ramo dell’antica famiglia siciliana che, intorno 1650, si distaccò recandosi in Basilicata. Secondo altra tesi, fu nel periodo angioino, quando Giovanni Lentini fu nominato vicerè d’Abruzzo e Governatore della Provincia di Puglia, che essi si stabilirono in queste terre.
Nello Stato delle Anime del 1680, oltre a Cesare, troviamo il nucleo composto dal figlio Valenzio (1658 ?), utriusque juris doctor, già sposato con la Magnifica Agnese di Biaso. Da loro nacque, nel 1693, Cesare junior, ovvero il nostro barone.
Degli altri figli di Valenzio Lentini, bisogna considerare Giovan Battista (1668 ?). È, difatti, di Giovan Battista che, intorno alla fine del XVII secolo, si rinviene traccia quale gabelliere daziario. Gli enormi introiti provenuti da tale ufficio, nel quale subentrò Cesare, sono all’origine dei successivi successi.
Da Giuseppe Antonio (fratello del barone del quale si sconosce l'anno di nascita), nacque invece nel 1729 Romualdo (Gianbattista) che Cesare istituì suo erede universale con il testamento del 1755 rogato dal notaro brienzano Antonio Leopardo. Un altro fratello del barone, don Rocco (1689-1738), era stato canonico abate della cattedrale di Monopoli.
Grazie all’enorme ricchezza accumulata, Cesare Lentini acquistò, il 26 agosto 1736, i feudi di Gallicchio, Missanello e Castiglione da Elisabetta Van Den Einden Piccolomini. Presso l’Archivio Parrocchiale di Missanello è difatti conservato l'
Istromento di compravendita delle terre di Gallicchio e Missanello stipulato tra la principessa di Belvedere e D. Cesare Lentini [2].

IL TESTAMENTO DEL BARONE

Il 21 settembre 1755, poco prima di morire, il barone don Cesare Lentini convocò nel palazzo della Rua di Santo Zaccaria il notaro Leopardo, il giudice a contratti Rocco Pellegrino ed i testimoni D. Costantino Labriola, D. Rocco di Fiore, D. Carmine Faraldo, D. Antonio Sabbatella, D. Alesandro Adobatto, D. Antonio Adobbato, D. Giulio Paternoster, D. Giuseppe Pagano, il Diacono Giuseppe Leopardo e Mastro Giovanni Manzella per dettare il suo ultimo, nuncupativo testamento.
Giaceva infermo col corpo e sano con la mente ed intelletto, di retto parlare in un letto esistente nel primo arcovo della seconda camera di detto palazzo sito nella contrada davanti la chiesa di Santo Zaccaria.
Alla presenza di monsignor don Diego Andrea Tomacelli, vescovo di Marsico, e su sua espressa licenza per ragione della festa della domenica, il barone Lentini dettò che il suo cadavere fosse sepolto in un tumuletto da farsi nel suolo a latere dell'altare della venerabile cappella del glorioso San Gaetano di suo juspatronato esistente nella seconda cappella sfonnata dalla parte destra della Chiesa di Santo Zaccaria di detta terra.
Nominò dunque suo erede universale il suo caro ed amato nipote don Romualdo Lentini, da lui chiamato don Giovan Battistanaturale della città di Napoli e di presente commorante nella città di Monopoli.
A Monopoli don Cesare aveva sposato, l'8 febbraio 1722, la nobildonna Maria Francesca Lantona. A Monopoli commorava nel 1755 Romualdo, naturale della città di Napoli, figlio di Giuseppe Antonio e Giacinta Essabruno napolitana [3]. L'anno prima, nel 1754, Romualdo fu iscritto nel registro della nobiltà di Monopoli quale barone Giovan Battista. Nella stessa città sposò, nel 1762, Teresa Cesena, figlia d'una sorella di Maria Francesca Lantona, moglie del barone Cesare. Sempre a Monopoli un fratello del barone, il canonico don Rocco, era stato abate della cattedrale.

LE DISPOSIZIONI PER L'ANIMA

Raccomandò al nipote, eseguita la sua morte e trasportato il cadavere nella suddetta chiesa di Santo Zaccaria con la dovuta e decente pompa funebre, di far celebrare tante messe quanto più se ne potranno in detta chiesa sopra del suo corpo per suffragio dell’anima sua, con l’intervento di tutto il reverendo clero di questa terra come pure indistintamente i religiosi minori osservanti della medesima terra e i religiosi cappuccini della città di Marsico Nuovo.
Lasciò ducati dieci ogni anno in perpetuo al reverendo capitolo della matrice chiesa di detta sua terra di Missanello ed altri anni ducati dieci anche in perpetuum al reverendo capitolo della Chiesa di Gallicchio altra sua terra.
Ordinò a Romualdo di fargli celebrare nello spazio di tre mesi nientemeno che 1980 messe brevi: 1000 dai sacerdoti del reverendo clero di Brienza, 500 dai Padri Minori Osservanti di questa terra, 300 dai Padri Minori del suo feudo di Missanello, 100 dai Padri Cappuccini della città di Saponara per la carità di tomoli dieci di grano e 80 dai cappuccini della città di Marsico Nuovo. Alla Beata Vergine della Madia di Monopoli lasciò per devozione 100 ducati.

La chiesa di S. Zaccaria e uno scorcio
di Palazzo Lentini, ora Paladini

I LEGATI

L’erede avrebbe dovuto adempiere tutti i legati disposti nell’ultimo testamento fatto dall’Ill.mo Sign. D. Rocco Lentini, caro ed amato fratello d’esso Sign. Barone [4] e stimare e venerare da sua cordialissima zia l’Ill.ma Sign. Baronessa Sig.ra D. Maria Lantona dilettissima moglie d’esso Ill.mo Barone testatore, somministrarle il vitto e vestiti da sua pari e con l’istesso commodo così di casa che di carrozza e servitù ed ogn’altro bisognevole.
Alla sorella Rosa (1697) lasciava l’usufrutto di tutti i beni di Brienza, compreso il palazzo, oltre a 100 ducati annui, non essendo sufficiente per l’annuo suo decoroso mantenimento l’usufrutto suddetto.
Un pensiero fu dedicato a Bruno Labriola, che attualmente serve dett’Ill.mo Sig. Barone, e ai cari vassalli tutti di dette sue terre di Gallicchio e Messanello: quanto al primo, Romualdo non avrebbe avuto facoltà di licenziarlo; i secondi, avrebbe dovuto trattarli ed amare dell’istessa sua maniera che ess’Ill.mo  Barone sempre ave amati e non angheriarli giammai per qualsiasi causa o colore.
Alle figlie femmine di Agnese Cavallaro [5] e di Francesco Antonio Paternoster lasciava 100 ducati ciascuna, per gli tanti servizzi dal sud. Dott. Sign. D. Francesco A. prestati in varie e molte occorrenze; “servizzi” che garantirono al Paternoster [6] di ereditare anche il suo cavallo rosso. Al suo caro compare Sig. Not. Geronimo Simonella della Città di Monopoli lasciava 150 ducati per l’affetto grande che li porta e per lo stesso affetto che gli avevano portato gli amatissimi zio e fratello Giovan Battista e Canonico Sig. D. Rocco [7].
Al cantore don Gennaro (1703-1783) lasciava una rendita di 25 ducati all’anno; un cantajo di casciocavalli ed il numero d’otto verrini alli S. coniugi Sign. D. Andrea Acerbo e Sig. D. Maddalena Salvetti in Napoli loro vita durante.
Al vescovo di Marsico, Mons. Diego Andrea Tomacelli [8], presente a palazzo Lentini al capezzale del testatore, lasciava il poledro storno indomito e il suo orologio nuovo d’argento, per esserli stato tanto affezionatissimo; al dignissimo nipote del prelato, Diego Tomacelli, l’orologio vecchio d’argento e la tabbacchiera anche d’argento.
Un altro cavallo morello con tutt’il suo guarnimento di sella, pistola, briglia e tale quale sta posto in ordine fu il pensiero per Francesco Antonio Abbamonte, figlio della sorella Laura [9]; stare quindici d’oglio per Don Francesco Vespoli durante la vita del medesimo per li molti favori ricevuti in varie occorrenze in Napoli.
Il compenso del notaro Leopardo fu di 20 ducati; 30 carlini quello del giudice a contratti Rocco Pellegrino; 20 carlini furono lasciati a Margarita Coppola sua creata e 10 ciascuno a Catarina Coppola, Giovanna Cammarota e Catarina di Luca per carità e per alcuni servizzi richiesti in casa.
L’affezzionato Sig. Parente D. Francesco Affatati Patrizio della Città di Monopoli fu infine nominato esecutore testamentario.

1 / continua


[1] Dal testamento dell’”Illustrissimo Signor Dottore don Cesare Lentini della predetta Terra e barone dei feudi di Gallicchio e Messanello” del notaro Antonio Leopardo

[2] M. SANCHIRICO , Gallicchio. Società e vita politico-amministrativa (dalle origini all'Unità), Potenza 2009

[3] Nello Stato delle Anime del 1745, nel palazzo di San Zaccaria, furono censiti il cantore don Gennaro Lentini, di anni 42 e la baronessa Rosa Lentini, vedova del Francesco Antonio Cavallaro, di Calvello. Insieme con gli zii viveva, all’epoca, Agnese Lentini, di anni 12, figlia di Giuseppe Antonio e di Giacinta Essabruno, sorella di Romualdo. Accanto al nome della donna è annotato “napolitana”.

[4] Il testamento costituisce fonte impotantissima per ricostruire le relazioni familiari di Cesare. Evinciamo appunto da tale documento che don Rocco, canonico della Cattedrale di Monopoli, era suo fratello.

[5] Figlia della sorella Agnese e di Francesco Antonio Cavallaro di Calvello

[6] Come si vedrà, Francesco Antonio Paternoster assumerà un ruolo fondamentale nelle vicende successive alla morte del barone.

[7] Da questo altro passo del testamento si stabilisce la relazione di parentela del barone con Giovan Battista Lentini senior, suo zio e quindi fratello del padre Valenzio.

[8] Nato a Scilla nel 1701, fu nominato vescovo di Marsico Nuovo il 13 settembre 1744. Morì il 24 agosto 1766.

[9] 1687/1773, moglie di Andrea Abbamonte di Caggiano, utriusque juris doctor

Commenti

  1. Ottimo lavoro molto utile per i miei studi sui Lentini di Monopoli. Michele Pirrelli

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