IL GIOCO DELLA ROTELLA
STORIA DI UNA TANGENTE?
L'atto del Notaro Nicola De Nigris del 15 agosto del 1770 costituisce probabilmente la testimonianza di una "tangente" ante litteram pagata per corrompere il Governatore della Terra di Brienza (1).
Il 2 agosto era d'uso recarsi presso la Cappella di Santa Maria degli Angeli - situata a circa due chilometri attuali dall'abitato, sulla strada che congiungeva Brienza a Pietrafesa - per onorare la Vergine e beneficiare della perdonanza, ovvero dell'indulgenza delle pene temporali, ottenuta mediante la visita alla Chiesa e col compimento di determinate pratiche di culto. Il termine porziuncula, utilizzato nell'atto come sinonimo di perdonanza, deriva evidentemente dall'indulgenza che San Francesco chiese direttamente a Dio per tutti coloro che avrebbero visitato la famosa chiesetta ora nella Basilica di Santa Maria degli Angeli (2).
Tale pratica di culto era stata istituita dalla locale Università (3) al cui jus patronatus apparteneva pure la Cappella.
La ricorrenza richiamava, evidentemente, molta gente sia di Brienza che dei paesi vicini. Era, dunque, un'occasione di festa, oltre che una pratica di culto. Per questo motivo, il 2 agosto del 1770, nei pressi della Cappella un forestiero intrattenne il pubblico di fedeli, dopo il culto, con il Gioco della Rotella.
Sulla natura di tale gioco è possibile fare due ipotesi: poteva trattarsi o della zecchinetta o della rudimentale roulette che ancora si vedeva nelle feste di piazza dei nostri paese fino a qualche anno fa.
Il gioco della sorte aveva ottenuto l'autorizzazione del Governatore della Terra di Brienza, il dottor Don Nicola Grezzi (4). Uno dei mastrodatti della Corte (5), mastro Bruno Labriola, era stato visto gustare il gioco e lo stesso Governatore passare e ripassare guardando come esso si svolgeva.
Nella bottega di un altro mastrodatti, Alessandro Caracciolo, alcuni dei testimoni avevano poi visto il forestiero versare la somma di sette carlini perché fossero consegnati al Governatore per la licenza.
Giuseppantonio Bruno testimoniò poi che, nella casa dove il Governatore risiede, aveva udito Don Nicola Grezzi dire al forestiero di essere rimasto molto soddisfatto degli otto carlini versati e che andasse pure a preparare il gioco. La dazione della somma di danaro era comprovata, infine, da quanto aveva affermato un serviente della Corte, tale Cataldo Salviulo, che l'aveva confermata.
IL TESTO DELL'ATTO
Die decimaquinta Ms Augusti millesimi septincentesimi septuagesimi, Burg.ae obt.a lic.a a Vic.o For.o ob Festivitatem Absumpionis B.ae M.ae Virginis
Costituiti in n~ra p~nza Ant.o Loiso, Gio: Cibelo M~ro Gius.e Caldarazzo, Michele Adobato, Ant.o di Marsico, Donato Lozito, M~ro Carmine Sabatella, Gius.e Marriello, M~ro Donato Lopardo, Marco Labriola, Carluccio Sabatella, Ant.o Lopardo, Gius.e Macchia, Gio: Restaino di Carmine, Michele e Camillo Marriello, Francescant.o di Rosa, M~ro Saverio Labriola, Gius.e Labriola, Egiddio Valentino, Giuseppant.o Bruno di M~ro Carlo, Carmine Labriola di M~ro Saverio, M~ro Carmine di Donatantonio, Vincenzo Bruno e Gennaro S. Rufo di d.a T~ra
NOTE
(1) Uno degli aspetti del potere feudale, nel Regno di Napoli, fu che fino al 1806 il Barone (nel nostro caso, il Marchese di Brienza) esercitava la giurisdizione civile e criminale, infliggendo ed eseguendo le pene. Concretamente, il barone nominava un Governatore la cui Corte era il tribunale di primo grado per tutti gli abitanti del feudo. Il Governatore, o capitano della legge, non poteva essere un nativo del feudo, doveva essere laureato in legge e, in caso contrario, doveva nominare un assessore che avesse tale titolo. Nello "Stato" dei Caracciolo (rappresentato dai feudi di Brienza, Atena, Pietrafesa e Sasso) il Barone ebbe anche la giurisdizione di secondo grado e nominava i giudici d'appello.Il Governatore era figura distinta dall'Amministratore del feudo, una sorte di general manager che i Caracciolo nominarono sempre nel corso del XVIII secolo e che era il responsabile dell'amministrazione dell'intero patrimonio. Stipendiato con un salario di 240 ducati all'anno, aveva al suo servizio una serie di subagenti in ognuno dei quattro feudi.
(2) San Francesco chiese a Dio: "Ti prego che tutti coloro che, pentiti e confessati, verranno a visitare questa chiesa, ottengano ampio e generoso perdono, con una completa remissione di tutte le colpe".
(4) Il 29 maggio 1800 il Governatore e giudice della Terra di Brienza, don Francesco Lecce, fu ucciso nei pressi del Castello baronale. In un atto del Notaio Nicola De Nigris del 28 agosto dello stesso anno si evince che probabilmente i sospetti si appuntarono su tale Francesco Caldarazzo. Nell'atto, Teresa Lopardo - che aveva una bottega a Santa Maria - testimoniò di essersi recata a casa del Caldarazzo, attaccata alla sua bottega, per prendere un po' di fuoco per accendere un lume e di averlo trovato scalzo e senza calzette asciugandosi al fuoco per essersi ritirato dalla campagna tutto consumato dalla pioggia, stante che fa da guardiano dei seminati con altri tre compagni. Francesco Caldarazzo si era poi portato nella bottega di Irene La Greca per comprare una caraffa di vino (del quale si specifica il prezzo: quattro grani la caraffa). Felice Viggiano dichiarò anch'egli di aver trovato il Caldarazzo in casa. Aveva avuto incarico dal signor don Michele Loreti di Pietrafesa (detto nel corpo dell'atto anche il fattore di Pietrafesa) di trovare dieci o dodici persone armate per accompagnare quell'esattore che doveva portare nella Regia Percettoria di Matera il denaro esatto dalle collette. Si era dunque rivolto al Calderazzo quale uomo d'arme.
(5) La mastrodattia (ufficio dell'attuario o dello scrivano) era uno dei diritti di natura feudale e consisteva nel potere di rilasciare gli atti e i documenti della Corte baronale, nonché di incassare le tasse per tale servizio. La mastrodattia del feudo di Brienza rimase sempre nelle mani del Barone. Nel 1592, difatti, l'Università prese in fitto tutti gli altri diritti feudali (la bagliva, la portolania, la zecca) ma non la mastrodattia. Insieme con tali diritti, l'Università prese in fitto anche i terraggi e il monopolio sui forni impegnandosi a pagare ogni anno 1300 ducati, 1200 tomoli di grano e 600 tomoli d'orzo. Trovandosi subito indebitata, l'Università fu costretta a mettere una tassa sulla farina per otto anni. In una controversia annosa, l'Università sostenne che il Marchese, al momento del contratto di fitto del 1592, aveva abusato della sua autorità avendo fatto eleggere un governo locale a lui completamente sottomesso. Nel corso del Settecento, l'Università riprese il monopolio dei forni per 220 ducati all'anno e pagava 180 ducati all'anno per la bagliva. Nel 1750 pagava 450 ducati per i forni, la portolania, la colta e la zecca e dal 1785 prese in affitto i forni, la bagliva, la portolania, la colta e alcune case per 675 ducati all'anno.
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